Il nemico “alieno” come costruzione sociale
Ogni epoca ha bisogno di un nemico. Qualcuno da additare come responsabile dei nostri fallimenti, della nostra incapacità di governare le complessità. A volte questo nemico ha il volto dei migranti, altre volte di minoranze religiose o culturali. Oggi, più silenziosamente ma con uguale veemenza, il ruolo di capro espiatorio viene affidato anche agli animali “alloctoni”: colpevoli non di ciò che fanno, ma di ciò che sono. La logica è sempre la stessa: trasformare la presenza di chi è “altro” in una minaccia, così da giustificare le nostre azioni violente. E così accade con lo scoiattolo grigio, trasformato in un simbolo di invasione, accusato di condannare lo scoiattolo rosso all’estinzione.
Commenti e percezioni diffuse
Ogni volta che raccontiamo il soccorso di uno scoiattolo grigio riceviamo commenti come: “Ma lo sapete che quello è uno scoiattolo grigio e che sta causando l’estinzione del nostro scoiattolo rosso???”. Dietro queste frasi non c’è scienza, ma slogan semplificati. Perché il punto non è ripetere all’infinito che il grigio “distrugge” il rosso: il punto è capire come e perché avviene questa presunta sostituzione, e soprattutto chiedersi se ridurre tutto a uno scontro frontale non sia, in fondo, una semplificazione utile più alla politica che alla conoscenza.
Convivenze e habitat
In Italia lo scoiattolo rosso abita prevalentemente i boschi, mentre il grigio si è diffuso nei parchi urbani, dove la confidenza con gli esseri umani e il cibo offerto generosamente lo rendono più visibile e più vicino. Questo non significa che i grigi “caccino” i rossi: significa piuttosto che i due vivono in ambienti differenti, e che le nostre percezioni sono condizionate dalla facilità con cui incontriamo il grigio rispetto al rosso. Non mancano situazioni di coesistenza, e persino colonie miste: segno che la narrazione di una guerra in corso, con vincitori e vinti, non racconta tutta la verità.
Le evidenze scientifiche confermano che non è solo la presenza dello scoiattolo grigio che appare maggiore per via della visibilità: possiede caratteristiche che ne potenziano la diffusione soprattutto in contesti antropizzati. Studi come quelli di Tranquillo et al. (2024) mostrano che i grigi in aree urbane tendono ad avere massa corporea più elevata, probabilmente perché approfittano del cibo offerto dagli esseri umani o presente nei parchi, combinato a climi più miti e meno predazione. Comportamenti come minore diffidenza, maggiore tolleranza al passaggio umano sono documentati — ad esempio, scoiattoli urbani che avvicinano la fonte di cibo o che rimangono tranquilli anche in presenza di persone, fenomeno meno presente nei grigi rurali. (Jordan, 2022; Salice et al., 2018) Inoltre, la dieta degli scoiattoli grigi è più opportunistica: sfruttano specie arboree ricche di ghiande, mangimi occasionali, frutti introdotti, fonti artificiali, mentre lo scoiattolo rosso resta più vincolato ai boschi maturi, alle sue specie preferite, e soffre maggiormente negli habitat alterati. Queste differenze comportamentali ed ecologiche costituiscono una parte rilevante della ragione per cui il grigio riesce a stabilirsi più facilmente vicino all’essere umano e a diffondersi, anche senza che vi sia necessariamente un contatto diretto aggressivo con il rosso.
Origini dell’“invasione”
Lo scoiattolo grigio non è arrivato in Italia da solo: è stato introdotto deliberatamente dall’essere umano. Il primo rilascio avvenne nel 1948, quando un privato cittadino liberò una piccola colonia nel parco di Villa Groppallo a Genova-Nervi, come dono “esotico” per rendere più pittoresco il giardino. Altri nuclei vennero introdotti negli anni successivi: nel 1966 a Stupinigi (Piemonte), e poi ancora negli anni ’90 in Lombardia, in particolare nel Parco di Candiolo (TO) e nel Parco di Vimercate (MB). Si trattava quasi sempre di introduzioni a scopo ornamentale o per curiosità estetica, senza alcuna valutazione sugli impatti ecologici a lungo termine. Da quei piccoli gruppi, gli scoiattoli grigi si sono diffusi progressivamente, approfittando dei parchi urbani e della vicinanza dell’essere umano, che ne ha favorito l’espansione anche con l’alimentazione diretta.
Oggi la loro presenza è conseguenza diretta di quelle scelte superficiali, compiute da pochi e che ora qualcuno vorrebbe riparare con la violenza, condannando individui innocenti a pagare per colpe che non hanno mai avuto. Davvero la soluzione etica sarebbe sterminarli? O non dovremmo piuttosto imparare a chiederci perché, dopo ogni errore umano, si invoca sempre la pena di morte per qualcun altro?
Cosa può fare il cittadino
Se un cambiamento è possibile, deve partire anche dal singolo. Non dare da mangiare agli scoiattoli grigi, non incentivarne la confidenza, non abituarli alla presenza umana. Ogni volta che tendiamo una mano con del cibo, pensiamo di aiutare, ma in realtà creiamo dipendenza, alteriamo comportamenti naturali, rendiamo più difficile qualunque gestione futura. La responsabilità individuale, sebbene minima, ha un peso.
Alternative agli abbattimenti
Se davvero si ritiene necessario intervenire ancora una volta sulla natura per ridurre il numero di scoiattoli grigi e restituire habitat agli scoiattoli rossi, esistono scenari alternativi agli abbattimenti. In Italia l’unico tentativo concreto, su scala minima, è stato quello di Perugia: appena 5 individui catturati e sterilizzati chirurgicamente, con costi elevatissimi e un impatto praticamente nullo rispetto a una popolazione stimata di oltre 1.500 individui su 50 km². Un metodo che, proprio per il dispendio di risorse e la complessità organizzativa, non può essere replicato su larga scala.
Nei modelli di simulazione sviluppati negli ultimi anni (Croft et al., 2021; 2024), il controllo della fertilità applicato su ampia scala – attraverso immunocontraccezione orale o sterilizzazioni chirurgiche – si dimostra potenzialmente competitivo con gli abbattimenti per contenere le popolazioni di scoiattolo grigio, soprattutto nei contesti urbani o periurbani dove le densità sono molto elevate. Sono metodi impegnativi e costosi, certo, ma hanno un vantaggio etico enorme: non producono vittime di nessuna specie e incontrano un’accettazione sociale molto più ampia rispetto agli abbattimenti.
In Emilia-Romagna non si è perso tempo ed è stato adottato un sistema radicalmente opposto: cattura tramite gabbie-trappola e uccisione in contenitori ermetici saturati di CO₂. Una procedura che i documenti ufficiali definiscono “eutanasia”, ma che in realtà corrisponde a una camera a gas. Questo metodo, oltre a suscitare forti obiezioni etiche, non elimina le cause del conflitto: riduce numeri localmente e temporaneamente, ma non interviene sulla disponibilità di cibo, sugli habitat frammentati o sul rapporto culturale tra l’umanità e le altre specie.
La conclusione che emerge è chiara: le soluzioni non cruente esistono, hanno basi scientifiche e proiezioni di efficacia, ma richiedono volontà politica e investimenti. Finché sarà più comodo ed economico lasciare che i cacciatori si divertano a sparare o che si ricorra alle camere a gas lontano da occhi indiscreti, la logica della soppressione prevarrà. Eppure, se davvero vogliamo affrontare il conflitto di coabitazione in modo responsabile, è proprio su queste alternative che dovremmo investire.
La questione morale
Quando soccorriamo uno scoiattolo grigio ferito, popolo di biologi ed etologi formati sui social che ripetete slogan sentiti qua e la, cosa vorreste che facessimo? Che lo lasciassimo agonizzante? O addirittura che fossimo noi stessi a ucciderlo? A questo già ci pensano le grandi associazioni animaliste che finanziate con donazioni e 5×1000. Per Rifugio Miletta sarebbe come chiedere a un prete di bestemmiare: un tradimento radicale della nostra missione e della nostra coscienza. Perché il dovere di soccorrere non conosce colore del pelo, provenienza geografica o appartenenza a una lista redatta da un ministero: conosce solo la sofferenza davanti ai nostri occhi. Il limite nel numero di soccorsi, come sempre ahimè, è la questione economica.
Cornice normativa
Le normative esistono e parlano chiaro: la Direttiva UE 1143/2014 sugli animali alloctoni obbliga gli Stati membri a gestire le specie invasive, ma non impone un divieto assoluto di soccorso nei centri di recupero. La Lombardia, come altre regioni, ha recepito queste indicazioni, ma spesso le applicazioni pratiche oscillano tra ambiguità e rigidità burocratica. Ancora una volta, a prevalere è la logica dei numeri, non quella della responsabilità morale.
Chi è davvero l’alieno?
Alla fine resta una domanda: chi è davvero l’alieno? Lo scoiattolo grigio, introdotto dall’essere umano e adattatosi a vivere nei nostri parchi? O noi stessi, che ci ostiniamo a trattare ogni alterità come una minaccia da annientare? Il problema non è la presenza del grigio, ma la nostra incapacità di gestire gli errori che abbiamo creato. Possiamo continuare a costruire nemici da sterminare, oppure scegliere di imparare a convivere con responsabilità. Sta a noi decidere quale umanità vogliamo incarnare.
Il “nostro” scoiattolo rosso
Quando qualcuno scrive di “nostro scoiattolo rosso”, non sta descrivendo un dato biologico, ma una costruzione psicologica e culturale. Quel “nostro” non dice nulla sugli scoiattoli, dice molto su di noi. È la proiezione di un bisogno di appartenenza: così come rivendichiamo i paesaggi o le terre, ci appropriamo di una specie per sentirla parte della nostra identità, come se fosse un bene di comunità da custodire o da esibire. Ma dietro quel “nostro” si cela anche una forma di nazionalismo biologico: ciò che è autoctono diventa “buono”, ciò che è alloctono è percepito come invasore, nemico, minaccia da eliminare. È la stessa logica binaria che governa i conflitti tra popoli, traslata sul piano della fauna.
Chiamare “nostro” lo scoiattolo rosso è anche un modo per ridurre l’angoscia che il selvatico suscita. Se è “nostro”, allora non è più del tutto altro, non è più imprevedibile, e possiamo illuderci di averne il controllo: proteggerlo quando ci fa comodo, sopprimerlo se “per il suo bene” pensiamo sia meglio così. È un’illusione di possesso che maschera il desiderio di dominio. Allo stesso tempo, lo scoiattolo rosso diventa “nostro” perché incontra il nostro favore estetico e affettivo: è piccolo, grazioso, familiare. Ma non diremmo mai “il nostro scorpione” o “la nostra vipera”. L’aggettivo possessivo si attiva solo con le specie che incontrano la nostra simpatia, e questo rivela quanto il nostro rapporto con la biodiversità sia selettivo e condizionato da criteri del tutto arbitrari.
Infine, quel “nostro” rivela una proiezione culturale che è insieme orgoglio e colpa. Orgoglio, perché il rosso è percepito come simbolo fragile e prezioso da proteggere; colpa, perché il grigio — l’invasore — lo abbiamo portato noi, e preferiamo dimenticarlo. Così la contrapposizione “nostro/loro” diventa una narrazione rassicurante che scarica la responsabilità sulle specie, anziché riconoscere che il vero problema è la nostra gestione del mondo.
Quel “nostro”, dunque, è la spia di un meccanismo più profondo: la difficoltà dell’umanità ad accettare che il mondo non ci appartiene, che altre specie non sono “nostre” né “loro”, ma semplicemente vivono. Il conflitto di coabitazione nasce esattamente qui: nel credere che l’appartenenza legittimi la soppressione, che ciò che chiamiamo “nostro” meriti di vivere e ciò che etichettiamo come “altro” debba essere eliminato. È la stessa logica che in politica crea muri, respinge migranti, divide i “noi” dai “loro”.
Se smettessimo di chiamare “nostro” lo scoiattolo rosso e iniziassimo a chiamarlo semplicemente “scoiattolo”, riconosceremmo che il valore di una vita non ha bisogno di aggettivi possessivi. E forse, nel compiere questo piccolo spostamento linguistico, inizieremmo anche a scardinare il paradigma più ampio che ci porta a difendere solo ciò che ci somiglia o che rientra nei nostri interessi immediati.
Francesco Castaldo
Volontario di Rifugio Miletta dal 2015.












