In questi giorni a Novara è stato annunciato un “piano di contenimento” degli ibis sacri, animali che si sono insediati in città e che, a quanto pare, disturbano l’ordine umano delle cose. “Verranno catturati”, si legge negli articoli di stampa, “e rimossi”. Ma la rimozione — lo si scopre solo leggendo attentamente i documenti ufficiali — significa molto probabilmente soppressione: dislocazione cervicale, ovvero lo spezzare il collo, come si fa ogni anno con i corvidi. Tecnica legale, eutanasica, dicono. Ma sempre un collo che si spezza è. E con ogni collo spezzato, ciò che si incrina è anche la nostra capacità di empatia.
Gli ibis non sono originari della pianura padana. Sono uccelli migratori che, come molti altri animali, si stanno spostando più a nord a causa del riscaldamento climatico — un fenomeno provocato dalle nostre emissioni, dai nostri stili di vita, dal nostro consumo senza limite. Ma anziché accogliere questi segnali come sintomi di un sistema da correggere, reagiamo con fastidio, paura e repressione. Gli animali che migrano diventano “invasori”, “problemi da risolvere”, “numeri da contenere”.
Ora, immaginiamo tra vent’anni un’estate a Novara con 48 gradi costanti. Immaginiamo di essere noi, o i nostri figli, a dover migrare più a nord, in cerca di luoghi vivibili. Come reagiremmo se le popolazioni nordiche parlassero di noi con le stesse parole che oggi usiamo per gli animali? Se implementassero un piano di contenimento contro “l’invasione climatica” dell’Europa meridionale? Come la prenderemmo, se i nostri figli venissero “rimossi” o anche semplicemente respinti per non disturbare l’ordine locale?
Qualcuno dirà: “Ma che c’entra, noi siamo persone, loro sono animali”. E qui vale la pena aprire una riflessione, perché il termine persona non è un’esclusiva della nostra specie. Persona, in filosofia, non è il contrario di animale: è un concetto che rimanda alla singolarità, all’unicità, alla capacità di soffrire, desiderare, comunicare, esistere con dignità. Il diritto moderno stesso riconosce che anche un ente collettivo, anche un’associazione, può essere persona giuridica. E allora davvero possiamo escludere in toto animali senzienti dalla nostra definizione di soggetti degni di rispetto?
Come fa notare una riflessione di “Osservatorio Ambientale UTC”, che mi è piaciuta particolarmente, viviamo in una società affetta da zoofobia: una paura irrazionale degli animali, amplificata dalla disinformazione, dalle psicosi collettive e da interessi economici. Accanto a essa si manifesta la dendrofobia, il terrore patologico della vegetazione spontanea, degli alberi che crescono senza permesso, della natura non addomesticata.
Non sempre si tratta di fobie clinicamente diagnosticabili, ma il loro effetto sul comportamento collettivo è tangibile: in molte amministrazioni locali si assiste a una crescente pressione pubblica per “ripulire” l’ambiente da animali o piante, spesso giustificata da ansie collettive o percezioni distorte del rischio. Le cause sono molteplici:
- paure sociali amplificate dai media,
- bias cognitivi che ci portano a sovrastimare la probabilità di eventi rari e innocui,
- una cultura del “decoro urbano” che identifica l’ordine con l’assenza di segni di vita spontanea.
Un albero che cresce in un’aiuola è percepito come pericolo. Un animale selvatico come intruso. L’imprevisto biologico come minaccia alla nostra fragile architettura del controllo.
A rendere più pericolosa questa dinamica è il fatto che le paure non vengono curate, ma sfruttate. Chi ci governa — politici, amministratori, portatori di consenso — raramente le riconosce come distorsioni da decostruire. Al contrario, le asseconda, perché il timore è più facilmente manipolabile della ragione. E il privilegio dell’ignoranza è un comodo strumento elettorale.
Lo ha detto Corrado Augias con crudele lucidità: «Andare incontro agli istinti è facile». Chi dice “no” all’empatia, alla complessità, alla convivenza, ha il vantaggio di giocare sulla non conoscenza dell’argomento da parte della massa. Chi invece tenta di difendere il bene comune — ambientale, culturale, etico — deve percorrere la strada più impervia, quella che richiede pensiero, responsabilità, consapevolezza, educazione.
Eppure curare queste fobie collettive sarebbe possibile. Servirebbero parole diverse, narrazioni più profonde, leader capaci di innalzare lo sguardo invece di abbassarlo al livello dei peggiori istinti. Ma finché il consenso si ottiene blandendo paure e promettendo soluzioni facili — come la soppressione degli animali o la distruzione degli alberi — continueremo a vivere in un mondo dove chi ha più bisogno di aiuto viene percepito come problema.
A quel punto, più che cittadini, diventiamo elettori da accalappiare. E come ricordava amaramente Antonio Albanese nei panni di Cetto La Qualunque, “Gli italiani si bevono qualsiasi minchiata, da sempre. Basta promettere l’impossibile e venderlo come garantito. Ad esempio, basta promettergli meno tasse, loro applaudono, e tu gliele alzi. ‘Basta corruzione’, li corrompi con una mancetta, e loro ti votano. Gli dici ‘chù pilu pe’ tutti’, tu futti e loro se la menano e ti votano. Io amo gli italiani: sono un gregge che segue il cane… e io, abbaio benissimo.”
Educare alla complessità: l’utopia necessaria
Rieducare una società intera a pensare oltre l’istinto, a guardare la complessità come risorsa anziché come minaccia, non è impresa da poco. Serve tempo, serve coerenza, serve il coraggio di chi non si accontenta del consenso facile. Occorre ripartire dalla scuola, che dovrebbe insegnare a convivere con la contraddizione e il dubbio, non a temerli. Occorre riscrivere il linguaggio dei media, che oggi nutre l’ansia e l’emergenza e disabitua alla profondità. Occorre pretendere dalla politica la capacità di guidare invece di compiacere, di elevare il discorso pubblico invece di semplificarlo fino alla menzogna ma, soprattutto, serve una nuova consapevolezza collettiva: il riconoscimento che vivere in un mondo interconnesso richiede responsabilità relazionale, non solo individuale. È un’utopia, certo. Ma un’utopia necessaria, perché l’alternativa — quella che oggi stiamo già sperimentando — è la regressione a un presente fatto solo di paure, di muri, di soppressioni. E nessuna società può sopravvivere a lungo se rimuove ogni forma di alterità, se silenzia ogni voce che disturba, se spezza ogni collo che non rientra nei suoi calcoli. L’educazione alla complessità non è un lusso da demandare a tempi migliori: è la sola strada per evitarne di peggiori.
Francesco Castaldo
Volontario di Rifugio Miletta dal 2015.












