Nel post precedente mi ero soffermato su come la parola biodiversità sia diventata un feticcio retorico, evocata non per custodire la ricchezza del vivente, ma per giustificare la sua soppressione. Politici, agricoltori e cacciatori la brandiscono come un talismano che legittima i propri interessi, e la politica, a sua volta, l’ha trasformata in un passepartout utile a concedere abbattimenti, assicurandosi il consenso di categorie che non mancano mai all’appuntamento elettorale.
Ma proviamo a rovesciare lo scenario. Immaginiamo, anche solo come esercizio intellettuale, che un politico scelga di emanciparsi da questo schema: che rinunci alla scorciatoia del consenso immediato e, invece di agitare parole svuotate, decida di studiare, di confrontarsi con un sapere tecnico e scientifico, di orientare le proprie scelte non alla difesa di interessi corporativi ma alla ricerca di un equilibrio possibile tra la nostra specie e le altre. Sarebbe forse un’utopia, certo; eppure, come ho già scritto in passato, è proprio dalle utopie che si misura la distanza tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere.
Immaginate allora questo politico ipotetico, in un esercizio di distopia rovesciata, che rinuncia al linguaggio delle armi per adottare quello della responsabilità, che rifiuta la retorica del nemico da abbattere e sceglie invece di interrogarsi sulle cause profonde del conflitto. Non cerca scorciatoie, non offre soluzioni immediate e consolatorie, ma mette in discussione l’idea stessa che il mondo sia un palcoscenico riservato solo a noi — e ha il coraggio di scrivere proposte di legge alternative al dogma secolare che recita “spariamo a tutto ciò che vola o cammina su quattro zampe per tutelare gli interessi umani”. È da qui che emerge il vero nodo della questione: il conflitto di coabitazione.
Che cos’è il conflitto di coabitazione
Il cuore della questione si chiama conflitto di coabitazione: è la difficoltà, tutta nostra, di condividere lo stesso spazio con altre forme di vita. Ogni volta che coltivazioni, pascoli, allevamenti, infrastrutture o città si estendono, lo fanno a spese di habitat che esistevano da milioni di anni prima di noi, e quegli animali che vi abitavano non si dissolvono per decreto. Continuano a muoversi, a riprodursi, a cercare cibo. Entrano in collisione con i nostri interessi, ed è allora che noi, incapaci di accettare che il mondo non ci appartenga, parliamo di “problema”. In realtà il problema non è la loro presenza, ma la nostra pretesa di esclusività.
Il muro contro cui si infrange un politico onesto
Ora torniamo al nostro politico immaginario. Cosa troverebbe di fronte a sé? Una macchina organizzata, potente e ramificata, che non è fatta di volontari che si alternano quando hanno tempo, ma di professionisti stipendiati, competenti, con uffici, avvocati, fondi illimitati. Associazioni come Coldiretti o Confagricoltura contano milioni di iscritti, rappresentano interessi economici sterminati e, negli anni, hanno affinato meccanismi di lobbying capaci di condizionare direttamente le scelte dei ministeri.
Facciamo un paragone che non lascia scampo: Rifugio Miletta ha poco più di 2.500 sostenitori attivi; Coldiretti supera i 2.500.000. La proporzione è schiacciante.
Ora, immaginate il nostro politico che osa pronunciare parole come queste: “Proviamo a investire in prevenzione, in misure alternative agli abbattimenti, che non risolvono ma cronicizzano il conflitto. Proviamo a non uccidere, ma a ridurre le cause alla radice.”
Pronunciata una frase simile, quel politico si troverebbe immediatamente sotto assedio: milioni di agricoltori, allevatori e cacciatori pronti a scendere in piazza, manifestazioni organizzate in decine di città, con cortei numerosi, finanziati e amplificati da un apparato mediatico connivente.
E sull’altro fronte? Qualche centinaio di animalisti radunati in una piazza (ad esempio nelle manifestazioni “nazionali” indette per gli orsi a Trento), divisi da infinite sfumature ideologiche, incapaci di convergere su un messaggio unico, spesso persino orgogliosi di non votare perché “nessuno mi rappresenta davvero”. E non si tratta solo di non voto. C’è anche chi, pur dichiarandosi animalista, continua a sostenere alle urne proprio quei partiti che rappresentano gli interessi di agricoltori, allevatori e cacciatori. Lo fa per tradizione di famiglia, per inerzia culturale, o sedotto dalla promessa sempreverde di “meno tasse” – promessa che raramente viene mantenuta e che, quando lo è, si traduce troppo spesso in tagli a sanità e istruzione, cioè a quei beni comuni che danno senso a una società civile.
Politica, voti e responsabilità
È qui che la matematica della politica diventa implacabile: quale partito, desideroso di ambire a un ruolo di governo, rischierebbe di alienarsi milioni di voti per conquistare l’appoggio flebile e disperso di chi, nella migliore delle ipotesi, si limita a indignarsi sui social? Perché mai un politico dovrebbe sacrificare la propria poltrona — e con essa privilegi, stipendi e potere — per un ideale che nemmeno i suoi diretti sostenitori hanno il coraggio di difendere fino in fondo?
Eppure qualcuno, di tanto in tanto, emerge. Ci sono parlamentari e consiglieri regionali che provano a invertire la rotta, che scrivono progetti di legge in cui la prevenzione prende il posto dei fucili. Ma restano eccezioni, fragili e isolate, a volte prive di un supporto tecnico solido che ne rafforzi la credibilità, e raramente sostenute persino dal loro stesso partito, perché sottrarsi al richiamo del consenso immediato significa accettare di muoversi senza rete, in un’arena politica che misura tutto sul breve termine e punisce chi osa guardare oltre, inevitabilmente stritolandoli in un sistema che non perdona chi devia dalle sue logiche.
Perché un rifugio parla di politica
Quante volte ci sentiamo dire: “Perché vi occupate di politica? I rifugi non dovrebbero fare politica!”
Nulla è più ingenuo — o più ipocrita — di questa frase. Perché ogni abbattimento, ogni piano di controllo, è deciso dai nostri amministratori sulla base delle leggi vigenti, che sono promulgate dal Parlamento e/o dai Consigli regionali. E i Parlamenti e i Consigli regionali sono eletti da voi, ogni cinque anni. Fingere che la politica non c’entri è come fissare un incendio e incolpare il fumo che offusca la vista, invece delle fiamme che divorano la casa.
Non volete che gli animali vengano uccisi? Non bastano le firme, non bastano le petizioni: bisogna votare partiti che sostengono esplicitamente questa posizione. La democrazia, con tutti i suoi limiti, funziona così: se rinunciamo a usarla, la consegniamo interamente a chi la piega contro la vita.
Dal “meno peggio” al “meglio possibile”
Vogliamo continuare a consegnare potere a chi promette il nulla cosmico — più abbattimenti, più conflitto, più sangue — o siamo pronti a scegliere almeno il “meno peggio”? La politica non è un’entità astratta: è la somma dei voti che ognuno di noi esprime o non esprime. Continuare a consegnare potere a chi promette il nulla cosmico significa abdicare a questa responsabilità, e abdicare significa diventare complici. Perché dal ‘meno peggio’ si può costruire, ma dal nulla cosmico non si risale: si precipita soltanto consegnando la vita degli animali all’ennesimo bollettino di guerra.
In Italia ci sono circa 46 milioni di cittadini aventi diritto al voto. Se anche il 70 % decidesse di astenersi — perché non c’è il candidato ideale, per protesta, per spirito anarchico, o semplicemente perché si crede di poter fare a meno delle leggi perché si vive come eremiti — non esiste alcun quorum che invalidi le elezioni. Il risultato è che il 30 % che vota decide la linea politica dei prossimi cinque anni, per noi, per voi, per gli animali.
Francesco Castaldo
Volontario di Rifugio Miletta dal 2015.












