È sufficiente pronunciarla per ottenere un alibi, una giustificazione, persino una licenza di uccidere. Politici, agricoltori, cacciatori la evocano come se fosse una reliquia, il santo graal, piegandola ai propri interessi.
A quale parola mi riferisco? A “biodiversità“.
“Si tutela la biodiversità abbattendo le specie invasive”, “si difende la biodiversità regolando il numero dei predatori”, “si preserva la biodiversità mantenendo, foraggiando, concedendo sempre di più all’attività venatoria”.
Ma che cos’è davvero la biodiversità? Non un concetto malleabile da piegare al proprio tornaconto, ma la trama infinita che lega geni, specie, ecosistemi. La condizione stessa che rende la vita possibile, resiliente, capace di resistere ai colpi del tempo.
E qui sta il paradosso: chi più di tutti la erode, l’essere umano, osa ergersi a suo custode. È come se un piromane si proclamasse pompiere: brucia i boschi, poi pretende di dettare le regole per spegnere le fiamme. È come se un pedofilo insegnasse in una scuola elementare. Solo a pensarci, la mente si ribella, lo stomaco si stringe, la pelle si accappona: un’immagine che non si può sostenere senza provare disgusto. Ma per l’uso improprio della parola biodiversità nessuno si scandalizza anzi, quando si parla di animali selvatici, aggiungerla a caso in una frase fa sembrare competenti. Un po’ come nelle riunioni di lavoro dei primi anni 2.000, quando usavi la parola “sinergia”.

La Terra ha 4 miliardi e mezzo di anni; l’Homo sapiens, la nostra specie, ne ha appena trecentomila. Se comprimessimo la storia complessiva del pianeta in un anno, noi compariremmo solo alle 23:30 del 31 dicembre. Se invece la storia della terra fosse un libro di mille pagine, occuperemmo l’ultima riga nell’ultima pagina. Eppure in quello spazio microscopico, quasi invisibile, siamo riusciti a sconvolgere equilibri che avevano retto per ere geologiche. Non abbiamo solo inciso la nostra presenza: l’abbiamo gridata, marchiata, resa catastrofe.
Non è stato immediato. Per decine di migliaia di anni abbiamo vissuto come qualunque altra specie, predando, adattandoci, subendo. Certo, la nostra impronta si è fatta sentire: la caccia ha contribuito a spazzare via mammut, tigri dai denti a sciabola e molte altre megafaune; l’agricoltura ha iniziato a convertire foreste in campi e pascoli. Ma fino a pochi secoli fa la biodiversità resisteva, oscillava, si riorganizzava. Il punto di svolta vero, il collasso che oggi leggiamo, è arrivato con la Rivoluzione industriale: deforestazione massiccia, urbanizzazione, inquinamento atmosferico e idrico. Il pianeta si è riempito di fabbriche, carbone, acciaio. Fiumi trasformati in cloache, cieli anneriti dal fumo.
Da lì in poi, la discesa non si è più fermata. La rivoluzione industriale non è stata solo un passaggio storico: è stata l’inizio di una nuova epoca, l’Antropocene, in cui l’impronta umana ha superato qualunque forza naturale. Oggi assistiamo a un’accelerazione senza precedenti della perdita di biodiversità. Gli scienziati parlano di sesta estinzione di massa: il tasso di estinzione odierno è da 100 a 1.000 volte superiore al ritmo naturale. Non è più il tempo geologico a dettare i cicli, ma la nostra specie.
Perdita di biodiversità dalla formazione della terra
Perdita di biodiversità dalla comparsa della specie Homo sapiens
Perdita di biodiversità dalla rivoluzione industriale
- Formazione della Terra e grandi estinzioni: dati di base da letteratura scientifica (geologia e paleontologia: Barnosky et al. 2020, Ceballos et al. 2015).
I valori intermedi (es. -250.000, -200.000, -150.000 anni, ecc.) sono interpolazioni introdotte per rendere il grafico leggibile e continuo. - Dalla comparsa di Homo sapiens: andamento basato su stime di perdita di specie da studi di biodiversità recente (Ceballos et al. 2015).
I passaggi esatti tra 50.000 e 500 anni fa sono interpolati, i valori recenti (ultimi 500 anni) sono tratti da dati reali.
La parola “biodiversità” è diventata il jolly che tutti calano sul tavolo per giustificare i propri interessi.
L’agricoltura industriale rivendica la necessità di abbattere cinghiali, caprioli, daini, corvidi in nome della “biodiversità”. Ma non c’è nulla di naturale nel difendere monocolture sterili, deserti verdi funzionali solo all’agrobusiness. Qui “biodiversità” è una parola di marketing: la riduzione degli animali selvatici non serve a ristabilire equilibri ecologici, ma ad aumentare la quota di raccolto destinata al mercato.
L’allevamento chiede (e ottiene) l’abbattimento dei predatori quando predano animali lasciati incustoditi. In questo modo la parola “biodiversità” diventa un paravento che permette di mandare al macello più animali allevati, fingendo di difendere la natura.
Il risultato è un cortocircuito: meno predatori significa più prede, e queste – cinghiali o cervidi che siano – trovano campo libero tra le coltivazioni, esasperando ulteriormente gli agricoltori.
La politica, a sua volta, usa “biodiversità” come grimaldello retorico per giustificare gli abbattimenti da concedere agli amici cacciatori (che vanno sempre a votare e votano chi gli promette più vantaggi). E i cacciatori (e i produttori di armi e munizioni) alla fine, sono gli unici a trarre beneficio da questa gestione emergenziale fallimentare: possono sparare a un numero sempre maggiore di animali, autocelebrandosi paladini della biodiversità. Verrebbe da chiedersi con quale logica, visto che lepri e fagiani devono prima essere allevati e reintrodotti artificialmente per poter poi essere abbattuti: una messinscena grottesca che trasforma la “tutela” in un tiro al bersaglio programmato.
In questo caos nessuno si prende la briga di tornare alle basi. La nicchia ecologica non è soltanto lo spazio fisico occupato da una specie, ma l’intreccio di risorse, vincoli e relazioni che le permette di vivere: disponibilità di cibo, presenza di predatori, competitori, rifugi. Quando il numero di individui supera la capacità portante della nicchia (il numero massimo di individui di una specie che un ambiente può contenere in funzione della disponibilità di risorse) il sistema collassa. La scarsità di risorse porta a mortalità più elevata, malattie, conflitti intra- ed interspecifici.
Al contrario, quando l’uomo moltiplica artificialmente le risorse – lasciando a disposizione colture, rifiuti, scarti – le popolazioni selvatiche crescono oltre la nicchia che avrebbero in condizioni naturali. Non è “biodiversità” che si rafforza: è un sistema ecologico falsato, drogato, reso instabile.
La domanda vera dovrebbe allora essere: che cosa accadrebbe se smettessimo di rendere accessibili ai selvatici le risorse che creiamo per noi? Se davvero si lavorasse per restaurare habitat e barriere ecologiche, anziché nutrire inconsapevolmente le specie più opportuniste e fucilare quelli che riteniamo di troppo? Forse le popolazioni tornerebbero a oscillare secondo dinamiche naturali, e la “biodiversità” cesserebbe di essere un jolly nelle mani della politica per tornare a essere ciò che è sempre stata: la trama viva che ci sostiene.
Stima di perdita di biodiversità al 2100 senza cambiamenti sostanziali
Scenari di modifica di biodiversità se:
- la popolazione di Homo sapiens fosse ridotta a 1 miliardo di individui
- la popolazione di Homo sapiens non fosse presente
- dal 2025 8 miliardi di Homo sapiens passassero immediatamente ad una dieta 100% vegetale
- alla dieta vegetale si aggiungesse il rewilding
- Dalla rivoluzione industriale e Stima 2100 senza cambiamenti: dati derivati da scenari IPBES (2019) e UNEP (IPBES Global Assessment), con interpolazioni lineari per gli anni intermedi.
- Scenari futuri (BAU, 1 miliardo di persone, senza umani): proiezioni ipotetiche a scopo illustrativo, basate su estrapolazioni della letteratura IPBES. I dati “Popolazione 1 miliardo” e “Senza umani” sono ipotesi modellizzate e non corrispondono a osservazioni reali.
- Scenario “Dieta vegetale globale dal 2025”: ipotesi basata su stime della letteratura scientifica riguardo alla riduzione dell’uso di suolo agricolo e delle emissioni dovute agli allevamenti. Secondo Poore & Nemecek (2018, Science), la transizione globale a una dieta vegetale ridurrebbe di oltre il 75% l’uso di terra agricola e di circa il 50% le emissioni alimentari totali, con un conseguente beneficio significativo per la biodiversità. La linea del grafico rappresenta quindi una stima modellizzata che assume un rallentamento consistente della perdita di biodiversità a partire dal 2025.
- Scenario combinato “Dieta vegetale + Rewilding”: ipotesi integrata che combina la riduzione di pressione da allevamenti (land-sparing) con ripristino attivo di habitat, corridoi e specie chiave. In linea con la modellistica di ripristino (es. Leclère et al., 2020, Nature), questo scenario produce una ripresa più rapida e profonda rispetto alla sola dieta vegetale, a patto che: (i) gran parte della terra liberata sia destinata a rinaturalizzazione, (ii) siano limitati “leakage” e delocalizzazione della produzione, (iii) diminuiscano i prelievi faunistici. Anche qui la linea è una stima modellizzata a fini divulgativi. Senza un cambio alimentare, tuttavia, il rewilding da solo non può liberare terra e risorse su scala sufficiente: rimarrebbe confinato a interventi locali, incapaci di invertire globalmente la perdita di biodiversità.
La biodiversità non ha mai avuto bisogno dell’essere umano, anzi! Ogni volta che la nostra specie interviene, lo fa per piegare la natura ai propri desideri. I grafici lo mostrano con crudezza. Se guardiamo gli ultimi 4 miliardi e mezzo di anni, la linea della biodiversità rimane quasi piatta, per poi precipitare solo in fondo, quando arriviamo noi. Se restringiamo lo sguardo agli ultimi 300.000 anni (dalla comparsa dell’Homo sapiens), la curva si piega sempre più, segnata dalle nostre estinzioni. E se osserviamo solo gli ultimi tre secoli, il crollo diventa verticale: dal 90% di biodiversità relativa nel 1700 a una stima del 55% nel 2100, se continueremo senza porci il problema.
Eppure, esistono scenari alternativi. Se fossimo un miliardo e non otto, la biodiversità rallenterebbe la sua caduta, si stabilizzerebbe. Se non ci fossimo affatto, la linea resterebbe piatta, immobile, attraversata soltanto dalle estinzioni naturali, lente, fisiologiche. È uno schiaffo alla nostra arroganza: la biodiversità non ha bisogno della nostra “gestione” ma avrebbe bisogno della nostra assenza.
E se il 100% degli 8 miliardi di esseri umani passasse immediatamente a una dieta vegetale, la perdita di biodiversità si arresterebbe e si assisterebbe persino a una ripresa. Il motivo è semplice: per alimentare direttamente otto miliardi di persone servirebbe molto meno suolo rispetto a quello oggi destinato a coltivare foraggi e pascoli per miliardi di animali d’allevamento, che a loro volta nutrono gli esseri umani. La letteratura scientifica non lascia margini di dubbio su questo punto: la zootecnia è tra i principali motori di deforestazione, estinzioni e consumo di risorse. Se pensi ancora “La colpa è della soia dei vegani che distrugge l’Amazzonia”, ti conviene aggiornarti: il 20% della soia è destinato al consumo umano, l’80% serve a riempire gli stomaci degli animali che poi finiscono nel tuo piatto. In altre parole, la deforestazione la paghi tu, non chi mangia vegetale.
Ma una transizione del genere resta un’utopia. La resistenza al cambiamento è altissima: per ragioni culturali, per ignoranza, per l’enorme peso economico delle filiere alimentari che condizionano governi e leader politici. Immaginate cosa succederebbe se il ministro della sanità e il ministro dell’ambiente affermassero: “Poiché è posizione dell’Academy of Nutrition and Dietetics che le diete vegetali correttamente pianificate sono salutari, nutrizionalmente adeguate e possono apportare benefici per la salute nella prevenzione e nel trattamento di alcune patologie in qualunque fase della vita e poiché gli ingredienti di origine animale hanno un impatto ambientale elevatissimo, da domani ogni mensa pubblica, incluse quelle scolastiche e universitarie, serviranno esclusivamente pasti vegetali. Ovviamente sarà ancora possibile cibarsi di alimenti di origine animale ma a casa propria e nei ristoranti, l’impatto della produzione animale non può essere alimentato dallo Stato con le vostre tasse”.
È paradossale che si invochi la parola “tradizione” per giustificare un modello che ha preso forma appena negli ultimi cinquant’anni, mentre la storia della Terra si misura in miliardi di anni e la nostra specie esiste da appena trecentomila. In altre parole: stiamo rischiando la rovina planetaria per difendere abitudini recenti, elevate a dogmi intoccabili solo perché fanno comodo a qualcuno. Mi auguro che i millennials riescano a perdonare i loro genitori e i loro nonni per avergli tolto un pianeta, l’unico che hanno a disposizione (per chi ipotizza la colonizzazione di Marte in un futuro prossimo, consiglio di ascoltare le analisi del dott. Neil deGrasse Tyson a riguardo).
La politica, l’agricoltura intensiva, la caccia continuano a invocare la biodiversità come se fosse una bandiera. Ma la biodiversità non è un concetto negoziabile, non è un catalogo dal quale selezionare chi merita e chi no. È il fondamento stesso della vita. Ogni specie tolta, ogni ecosistema mutilato, è una ferita che ci riguarda, anche se non lo capiamo subito.
La domanda allora è semplice, ma radicale: siamo pronti a riconoscerci come ospiti di passaggio in una casa che non ci appartiene? O continueremo a comportarci da padroni, mentre i muri crollano e il tetto brucia? La biodiversità non ha bisogno delle nostre giustificazioni, ha bisogno che smettiamo di raccontarci favole e che, finalmente, guardiamo in faccia la realtà: noi non siamo i custodi della vita sulla Terra, ne siamo la sua minaccia.
Se mai avrete letto questo pensiero, la prossima volta che il vostro politico di riferimento accenna al fatto di uccidere qualcuno per ripristinare la biodiversità, ricordatevi che il danno minore lo si otterrebbe se lui desse immediatamente le dimissioni e si ritirasse a coltivare un orto, lontano da nozioni che non ha e decisioni che non comprende.
Francesco Castaldo
Volontario di Rifugio Miletta dal 2015.













Non c’è altro da aggiungere. Noi siamo il male assoluto.
L’ho sempre pensato, NOI, senza ulteriori commenti e giustificazioni: IL MALE ASSOLUTO