Ci sono pensieri che si affacciano spesso alla mente, ma rimangono sullo sfondo. Li intuisci, li percepisci, ma restano sfocati finché qualcosa – o qualcuno – non li chiama per nome. A me è successo leggendo le parole di Viola, volontaria del mese di luglio 2025, che, dopo essere tornata a casa, ci ha scritto una lunga lettera. Un testo affettuoso, ironico, lucido, che racconta in modo personale il mese “intensivo e totalizzante” trascorso a Rifugio Miletta.
«Per noi ovviamente esistiamo solo noi, ma per voi no – un po’ come la gente che porta gli animali al cancello: per loro esiste solo l’animale che hanno portato loro.»
Questa osservazione, che può sembrare marginale, tocca in realtà un nodo frustrante del nostro operato: chi ci affida (o chiede il nostro intervento per) un animale ferito si comporta come se quell’animale fosse l’unico, come se, attorno a lui, non ci fossero centinaia di altre vite da curare, imbeccare, nutrire, allattare, recinti da pulire, cibo da preparare, emergenze da gestire, telefonate da filtrare. Perché succede? Perché, per gran parte delle persone, esiste solo il “loro” animale, il loro gesto, la loro storia? Perché è così difficile comprendere che chi cura un animale, a Rifugio Miletta, spesso ne sta curando anche altre centinaia? Che non è disinteresse se non mandiamo aggiornamenti, se cerchiamo di mantenere brevi le telefonate o l’accettazione, ma impossibilità materiale?
Purtroppo Rifugio Miletta non mi sta lasciando nulla di simile al “tempo libero”. I soccorsi si susseguono, la burocrazia ci stringe, le telefonate arrivano anche nel cuore della notte (a volte per motivi futili), i pasti da preparare per volontarie e staff non si cucinano da soli, e le ore di sonno sono diventate un lusso da elemosinare.
Eppure, proprio questa mancanza di tempo personale mi ha fatto riflettere su come vorrei impiegarlo, se solo ne avessi un po’. Lo vorrei dedicare allo studio, all’apprendimento, ad ampliare la mia cultura, a essere un po’ meno ignorante di quanto sono. Non per fare di queste conoscenze un mestiere (anche se, a dire il vero, prima o poi un lavoro dovrò trovarmelo: quello che doveva essere il mio anno sabbatico dedicato al rifugio si sta allungando più del previsto, e le conseguenze economiche iniziano a bussare), ma per il piacere di sapere. Di capire.
E così, tra una gita notturna e l’altra per soccorrere un capriolo investito o accompagnare un tasso dal nostro veterinario, grazie all’aiuto dello smartphone – che a comando vocale cerca e legge articoli e saggi mentre guido – ho iniziato ad approfondire e ciò che ho trovato, vorrei ora provare a raccontarlo: da dove nasce questa difficoltà a vedere l’altro?
Perché per l’essere umano esiste quasi solo egli stesso?
La coscienza umana è strutturalmente autoreferenziale. Non è una colpa, ma una condizione originaria. Ognuno di noi nasce, cresce, vive e muore all’interno di una sola prospettiva: la propria. Tutto ciò che sperimentiamo – gioia, dolore, desiderio, perdita – passa attraverso i nostri sensi, il nostro corpo, la nostra memoria. È per questo che, anche quando agiamo per gli altri, non smettiamo mai davvero di partire da noi.
«L’uomo è per natura egocentrico, e questo centro è l’origine di tutte le sue illusioni», scrisse Schopenhauer (oltre alla frase con cui inizia il nostro statuto). E Thomas Nagel, più recentemente, ha osservato: «Il punto di vista soggettivo è l’unico a cui abbiamo pieno accesso».
Ciò significa che ogni tentativo di comprendere il mondo deve, in un modo o nell’altro, passare attraverso il filtro deformante del nostro vissuto. Gli altri – le altre coscienze, le altre vite – ci sono dati solo per frammenti, mai nella loro interezza. Ecco perché, anche in buona fede, possiamo finire per pensare che il nostro dolore sia più vero di quello altrui. O che l’animale che abbiamo soccorso sia l’unico che conta.
Gli altri esistono, ma sfocati
Emmanuel Levinas ha cercato per tutta la vita di scardinare questa gabbia dell’io. Secondo lui, la vera etica comincia solo quando incrociamo lo sguardo dell’altro, quando il suo volto ci interpella, magari in modo silenzioso, ma ineludibile. Ma quanti sanno sostenere lo sguardo dell’altro? Quanti riescono a vedere davvero? E non parliamo solo di altri esseri umani. Parliamo di animali. Di creature che non parlano la nostra lingua, che non hanno voce nel nostro mondo giuridico, che non votano e non possiedono. Vite che – proprio per questo – rischiano di non esistere affatto nella percezione della maggioranza.
Quando una persona ci consegna un animale ferito, l’animale che ha salvato è il suo mondo, è l’unico, è l’epicentro di una piccola epopea personale: l’incontro dello sguardo, la decisione, le fatiche, la corsa, la consegna. A volte, anche il ricatto morale, più o meno velato: “Ora che ve l’ho portato, non fatelo morire, eh?”. Tutto il resto – le centinaia di altri animali, la stanchezza di chi li cura, il silenzio doloroso della mancanza di risorse – semplicemente non è presente, è fuori non solo dal campo visivo ma anche dall’immaginazione. Questa persona che mi risponde al telefono alle 01:30, al numero suggerito da un utente che ha commentato verso le 18 un post che ho pubblicato alle 15 nel gruppo Facebook del mio paese, in cui chiedevo cosa fare del riccio che ho trovato in giardino qualche ora prima, questa persona a cui sto chiedendo di venire a prenderlo a casa mia perché è troppo sbatti per me portarlo fino ad Agrate Conturbia, avrà già cenato? Stava dormendo? Avrà dedicato del tempo ai suoi affetti? Sarà riposata? Starà facendo il suo turno di lavoro di 8 ore, e poi si riposerà? Sta facendo ore di volontariato dopo il suo turno di lavoro di 8 ore? O sta andando avanti non-stop da mesi?
Se lo sguardo non basta, come si educa allora la capacità di vedere?
L’empatia è un muscolo: si può allenare o atrofizzare
«La compassione non nasce spontaneamente: richiede immaginazione, cultura, narrazione, esercizio morale.» — Martha Nussbaum. Su questo punto Umberto Galimberti è netto: l’empatia nasce nei primissimi anni, nel riconoscimento originario; se manca all’inizio, recuperarla è arduo. E tuttavia, alcune sue dimensioni si possono coltivare più tardi con pratiche intenzionali e narrazioni che allargano lo sguardo.
L’empatia profonda non è una qualità innata, è una costruzione, faticosa e incerta. È più facile provare empatia per chi ci somiglia. È più difficile estenderla a chi non ha voce, a chi non ha occhi umani, a chi non chiede, non piange, non scrive.
Per molti, “l’animale” resta un’astrazione. Una parola collettiva che cancella ogni differenza. Jacques Derrida lo dice senza mezzi termini: «Quando diciamo ‘l’animale’, facciamo già violenza. Annulliamo le singolarità, i volti, i vissuti». Ogni capriolo, ogni riccio, ogni cornacchia ha una vita unica e irripetibile – ma l’abbiamo compressa sotto l’etichetta ‘animale’: da lì comincia spesso la loro scomparsa.
Il protagonismo morale dell’aiuto
In molte persone l’atto di aiuto è un riflesso del proprio bisogno di valore. Si aiuta perché si vuole essere quelli che aiutano: “Io ho salvato questo animale, io l’ho portato a Rifugio Miletta”. Si salva un animale perché questo permette di raccontare a sé stessi e/o agli altri una storia edificante.
Ma se quella storia non va a buon fine – se l’animale muore, se non arrivano aggiornamenti o se la comunicazione con il rifugio è difficile – il rischio è di sentirsi delusi, addirittura offesi o traditi, come se al gesto spettasse un lieto fine garantito… E un monumento.
È il paradosso del protagonismo morale: chi aiuta, spesso, è più interessato a essere visto mentre aiuta che alla condizione reale dell’essere aiutato.
«La vera etica comincia dove finisce il bisogno di reciprocità.» — Emmanuel Levinas
È etico solo ciò che continui a fare anche quando nessuno ti applaude. Quando sei stanco, invisibile, frainteso. È questo che accade ogni giorno a Rifugio Miletta.
Proprio voi parlate, che siete una delle associazioni “più social d’Italia?”, potrà obiettare qualcuno. Rifugio Miletta non opera grazie a bandi o a contributi pubblici, quello che fa Rifugio Miletta è generalmente osteggiato da chi mette a disposizione fondi per il terzo settore. Rifugio Miletta è alimentato dalle persone e i social non sono uno strumento auto-celebrativo, ma sono utili a:
- raccogliere le donazioni per operare;
- far vedere come sono usate le donazioni per operare;
- educare, istruire, criticare. A volte con toni che qualcuno giudica poco consoni e di cui si lamenta ma, un occhio attento, noterà che il cambio di tono, il linguaggio più brusco, aumenta la visibilità del contenuto facendolo arrivare a molte più persone.
Per questo li utilizziamo. Potremmo triplicare in poco tempo il numero di follower se nei contenuti comparissimo anche noi, i nostri volti e i nostri drammi personali ma scegliamo deliberatamente di non farlo per ora. Ci rifiutiamo di accontentare l’algoritmo mettendo le nostre vite in piazza, preferiamo continuare raccontando degli animali. Celebrazioni come “eroi”, “angeli” etc. mettono molto a disagio perché nessuno si ritiene tale. Siamo poche persone che impiegano il proprio tempo per una causa in cui credono. Sarebbe molto bello se fossimo molto più numerosi.
Il rifugio come spazio rivoluzionario
Quello che Viola ha colto, pur essendo rimasta solo un mese, è che il Rifugio non è semplicemente un luogo di soccorso. È un luogo di rivoluzione morale: qui gli animali non sono risorse, non sono “pet therapy”, non sono strumenti per lenire il disagio umano (non avete idea di quante persone sono passate da qui… ah, se solo potessi parlare. Magari ci scriverò un libro postumo), né simboli da usare come proiezione di una bontà personale.
Qui gli animali sono, semplicemente, soggetti, esistenze a pieno titolo, individui. Non ci servono a niente, non ci danno nulla in cambio ed è proprio per questo che li rispettiamo.
«L’animalità ci interroga non come oggetto, ma come specchio.» — Umberto Galimberti
Non ci guarda da sotto, aspettando ordini, ci guarda da pari. E in quello sguardo, se lo si sa reggere, si aprono domande che non hanno risposte consolanti.
“Chi sei tu per decidere della mia vita?”
“Perché il tuo dolore dovrebbe contare più del mio?”
“Chi ti ha dato il diritto di usarmi, salvarmi, ignorarmi?”
Solo lì si inizia a spostare il centro di gravità del mondo da sé all’altro — anche se quell’altro ha il becco spezzato o cammina storto perché è stato investito.
Conclusione: educarsi alla decentratura
Sarebbe necessaria una pedagogia della decentratura: educarsi a non essere il centro, a non essere il protagonista. Educarsi a vedere davvero l’altro, anche quando non ci assomiglia, anche quando non restituisce nulla.
Rifugio Miletta, in questo, è un luogo di disintossicazione semantica e spirituale. Qui si impara, giorno dopo giorno, che le vite non sono nostre, che la cura non è mai eroica, ma sempre faticosa, modesta, esposta alla perdita. Che ogni gesto che facciamo — anche quello che nessuno vede — è un frammento di qualcosa che vale più del tempo, più del sonno, più delle energie che consuma.
Forse la filosofia serve anche a questo: a ricordare, ogni tanto, che c’è chi resiste. Chi, come Rifugio Miletta, nelle sue infinite imperfezioni e difetti, continua a tenere acceso un lume nella notte, anche quando il mondo è buio, anche quando nessuno guarda.
Francesco Castaldo
Volontario di Rifugio Miletta dal 2015.













