Nel post precedente mi ero soffermato sul ruolo della politica e sul modo in cui, piegata al consenso immediato, essa preferisca concedere abbattimenti anziché investire in soluzioni durature. Questo paradosso si allarga oggi ad abbracciare un aspetto ancora più inquietante: non solo si continua a uccidere, ma si scelgono e si finanziano prevalentemente quegli Enti e quei CRAS che rifiutano la cura e imboccano la scorciatoia della soppressione, mentre chi davvero cura, riabilita e restituisce alla vita viene ostacolato o marginalizzato. Anche nei bandi, è molto più semplice trovare, in ambito ambientale, finanziamenti per eliminare le specie aliene piuttosto che fondi per aiutare tutti gli animali selvatici.
La legge e la morale
Non è difficile prevedere che, senza cambiamenti di rotta, arriveranno a colpire anche quei pochi CRAS che oggi rappresentano un argine etico e operativo, solo perché hanno il coraggio di soccorrere tutti, anche specie considerate scomode.
La legge, se vuole essere giusta, non può ridursi a un insieme di procedure: deve ispirarsi a una morale capace di distinguere ciò che eleva da ciò che degrada. Uccidere per accrescere un profitto è male, aiutare chi soffre è bene — anche quando non ci riguarda direttamente, anche quando comporta fatica, anche quando non porta alcun ritorno immediato, anche quando non appartiene alla nostra specie e non ci riserva un posto in paradiso. Nel momento stesso in cui possediamo la capacità di intervenire, quella capacità diventa responsabilità, e non agire significa tradire non soltanto l’altro vivente, ma la nostra stessa umanità.
Qual è la soglia oltre la quale un essere umano ha non solo il diritto, ma il dovere morale di disobbedire a una legge che punisce chi compie il bene? Non è questione teorica: lo abbiamo visto nel Mediterraneo, dove chi salva vite in mare si trova sotto processo non per aver violato la giustizia, ma per averne incarnato lo spirito contro una norma piegata agli interessi di potere.
Cos’è (davvero) il conflitto di coabitazione
Si parla spesso di conflitto tra uomo e animali, ma la verità è che si tratta innanzitutto di un conflitto tra interessi umani: il profitto agricolo, l’allevamento, l’attività venatoria, la cosiddetta “sicurezza”, che troppo spesso viene evocata in modo strumentale, magari agitando lo spettro dei bambini in pericolo.
Il conflitto di coabitazione è, in fondo, l’incapacità dell’umanità di accettare che il mondo non le appartenga per diritto naturale o divino, ma che sia una casa condivisa, reclamata anche da altre forme di vita. E poiché l’umanità è potente militarmente e tecnologicamente — non solo per le armi, ma per l’organizzazione sociale e il dominio sugli ecosistemi, per usare l’efficace espressione del prof. Mormino — si arroga il diritto di riservare a sé tutte le risorse del pianeta. Ma è davvero giusto farlo?
Le giustificazioni che ci raccontiamo — siamo “superiori”, gli altri animali non scrivono poesie, non dipingono, non costruiscono razzi per andare nello spazio — vi sembrano sufficienti? Se applicassimo gli stessi criteri (intelligenza, ablità artistiche, tecniche, economiche) dentro la nostra specie, il 95% degli esseri umani risulterebbe “indegno di esistere”.
L’uccisione non risolve il conflitto: elimina individui, ma non affronta le cause. È un modo di rimandare il problema, non di superarlo.
Come si dovrebbe risolvere
La strada non passa dal sangue, ma da un investimento culturale e politico.
- Cultura: educazione, comunicazione, consapevolezza diffusa sul fatto che condividiamo la Terra con altre specie.
- Mezzi: strumenti di prevenzione, barriere ecologiche, tecnologie che riducono l’attrazione degli animali verso le nostre colture e i nostri rifiuti.
- Governance: regole lungimiranti, fondate su etica e scienza, capaci di guardare oltre il consenso immediato.
Non è questo il luogo per entrare nel dettaglio tecnico, perché ogni volta spuntano obiezioni del tipo “l’ha detto mio cugino” e la conversazione si trasforma in un “te lo dico e lo confermo” in stile bar sport, che tende a confondere piuttosto che chiarire. Ma a questo punto non è nemmeno necessario addentrarsi nel tecnicismo: basta sapere che le soluzioni esistono, sono già praticabili, e presentano risultati concreti, più efficaci e sostenibili degli abbattimenti, se solo ci fosse la volontà politica e culturale di adottarle.
Pensare che “mio cugino” — forte di qualche aneddoto personale — possa smontare anni di studi scientifici, di dati di campo e di progetti pilota è ingenuo. Il metodo scientifico, al contrario, richiede osservabilità, ripetibilità, misurazione: cioè procedure rigorose che producono evidenze verificabili. Il racconto aneddotico è tutto l’opposto — è soggettivo, incontrollabile e incapace di diventare base per una politica pubblica. O per lo meno non dovrebbe esserlo…
Esistono dati concreti che attestano l’impatto positivo delle misure di prevenzione sul lungo periodo. Per esempio, secondo un rapporto europeo, in Baviera — tra il 2020 e il 2022 — sono stati investiti oltre 10 milioni di euro in misure di protezione del bestiame (recinzioni elettrificate, cani da guardiania, ricoveri notturni), ottenendo una riduzione significativa dei danni provocati dai grandi carnivori.
Allo stesso modo, esperienze e documenti della Commissione UE mostrano che interventi come siepi naturali, corridoi ecologici, rotazioni agricole e zone lasciate a riposo (aree EFA) non solo mitigano il confronto con la fauna, ma creano benefici per la biodiversità, oltre a scenari in cui il danno si riduce e i costi si condividono in modo più equo.
Il conflitto di coabitazione non si risolve con il sangue, ma con la responsabilità. Le leggi dovrebbero servire a costruire convivenza, non a legittimare il sopruso. Quando una norma scoraggia chi salva e premia chi uccide, allora non sono gli animali il problema, ma la nostra incapacità politica e morale.
Siamo pronti a rimettere la giustizia al di sopra della legge, il bene al di sopra del profitto? Da anni ripetiamo una frase che resta più attuale che mai: “Non sempre ciò che è legale è giusto.”
Francesco Castaldo
Volontario di Rifugio Miletta dal 2015.












